Il racconto di sé risponde a un desiderio, o addirittura a una pulsione di autocomprensione, al desiderio di dare una struttura narrativa organizzata, con un senso, cioè con un significato e con una direzione, al tempo della nostra vita.
Ma allora perché le maschere e le menzogne dell'autobiografia? Chi si racconta censura, trasforma, valorizza un avvenimento e ne sottace un altro, e magari non si firma, o usa pseudonimi. Raccontarsi, costruire una storia di sé anche fittizia, anche menzognera, costruirsi, come si dice, e si teorizza, un'identità narrativa, è un modo per superare l'incertezza su di sé, e sulla coerenza dei propri comportamenti. Da una parte, ai racconti di sé non si chiedono verità fattuali, come si chiedono allo storico: il lettore di autobiografie fa un patto con il suo autore, di cui accetta il dono di senso; e d'altra parte c'è un limite insuperabile alla verità dell'autobiografia: il fatto che l'autore non sappia la fine, che possa perciò costruire più possibilità di sé, perché la sua verità sarà sempre penultima. Gli autori hanno pensato questi temi. Hanno pensato inoltre all'incontro della scrittura filosofica con generi di scrittura come autobiografie, diari, confessioni, corrispondenze: si sono chiesti come il discorso filosofico possa essere investito dalle varie forme di equilibrio e di ambiguità che caratterizzano i testi diaristici e le corrispondenze (come, ad esempio, la ricerca di trasparenza nelle confessioni; l'autodenigrazione o l'eroicizzazione nell'autobiografia o nelle lettere). L'interesse si è volto a quei testi filosofici in cui la soggettività dell'autore è vista non come un'identità già costituita, ma come un processo in cui una figura di autore si costituisce dinamicamente, in diverse forme di equilibrio e in diversi contesti di riflessione, inscrivendosi nel rapporto tra la costituzione di un testo, e il disegno di realtà che il testo proietta. Sommario
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