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Specchio di "Oltrecorrente"
L’opinione secondo cui la domanda pubblica di filosofia sarebbe in aumento appartiene a quelle chiacchiere che, per il gioco insistente dei rimbalzi, alla fine sembrano vere. Ciò che è vero, è che si dice che vi sia una crescente richiesta di sapere filosofico, e questo “si dice” ha il suo valore sociale poiché, a sua volta, orienta iniziative, favorisce incontri ecc. Ma, quanto alla domanda vera e propria di filosofia, credo si tratti di una richiesta molto generica e velleitaria, grosso modo corrispondente all’attenzione superficiale verso le religioni orientali o, in senso più mondano, verso le pratiche del new age. Nella poesia contemporanea è ormai consolidata la distinzione tra testi colti, che appartengono alle varie tradizioni poetiche e ai loro problemi contenutistici e formali, e testi popolari musicali, che interpretano una poetizzazione fortemente emotiva dei temi della vita contemporanea. Si tratta di una distinzione riconosciuta: tant’è che il premio Montale viene attribuito contemporaneamente ad autori che appartengono alle due serie.
La stessa cosa non accade in filosofia, nel caso di volenterose manifestazioni in cui filosofi di valore vengono ascoltati da un vasto pubblico che però non è in grado di recepire il loro pensiero, se non in forma rapsodica, confusa e banalizzante. Il risultato più sicuro è che i protagonisti filosofici vengono a trovarsi in un contesto di spettacolarizzazione che può servire, più che altro, alla diffusione mediatica della loro notorietà, nel solito gioco di riflessi che esiste dai più alti ai più bassi sistemi mediali. Il pubblico, in realtà, “vede” importanti figure filosofiche e cade nella nota illusione, propria dell’ascoltatore televisivo, secondo la quale il vedere sarebbe di per sé un sapere, dimenticando l’essenziale: il vedere della filosofia e il vedere la filosofia accadono con gli occhi della mente; essi richiedono una lunga e paziente educazione che va al di là del desiderio che gli occhi credono di realizzare con la loro visione. Questi avvenimenti mondani hanno il solo vantaggio di mostrare al pubblico che esistono un fare filosofico, degli addetti, delle conoscenze, e non è niente, dato la censura che il mezzo televisivo di fatto esercita su alcune forme di comunicazione irriducibili alla modalità del messaggio mediatico. Può anche essere che ne consegua a volte la diffusione di qualche libro in più, anche se l’acquisto di un testo non corrisponde affatto alla lettura del medesimo. La cosiddetta domanda filosofica non provoca una nuova educazione filosofica, anche se sono certo che nel nostro mondo sia in corso una ribellione etica al dominio del divertimento televisivo e alle massime del “pensiero unico”, derivante dalla felice ibridazione della secolarizzazione cristiana e della secolarizzazione marxista che provocano una diffusione di valori sociali profondamente positivi. In generale bisogna tenere presente che l’educazione dello spirito pubblico si svolge attraverso pratiche concrete, finalizzazioni materiali, giudizi diffusi e condivisi, molto più di quanto non possa avvenire tramite un vero e proprio sapere filosofico. Quanto alla filosofia, penso da molto tempo che un errore di prospettiva molto serio consista nel considerare la tradizione filosofica come unità, svolgimento del “pensiero”, piuttosto che come forma comunicativa particolare ibridata con altre forme del sapere e, soprattutto, caratterizzata da particolari modalità comunicative sue proprie, fondamentali per la stessa forma teorica e il senso sociale del messaggio filosofico. Occorre saper sempre ben cogliere la congiuntura comunicativa degli elementi che compongono una “filosofia”: ad essi appartengono il lessico, il genere e lo stile del testo, la sua forma sociale (manoscritto, libro o ipertesto) e infine, essenziale, la destinazione reale ? o anche immaginaria ? del testo. Solo attraverso queste interrogazioni, rivolte alla vita materiale di un testo filosofico, è possibile comprendere quali siano veramente l’evento filosofico, la sua efficacia comunicativa e il suo specifico valore “educativo”, anche se, ovviamente, non è vietato usare materiali filosofici decondizionati da queste analisi come antologia e “riserva cantieristica” per la costruzione di propri discorsi teorici: lo stesso è avvenuto in architettura, con l’impiego di manufatti precedenti per nuove costruzioni. Del resto, dal punto di vista della filosofia come forma di comunicazione, tutti conoscono gli importanti problemi derivati dall’interpretare l’orale socratico (che cosa credi di sapere?), dalla critica platonica alla scrittura (non puoi pensare che ricordare praticamente qualcosa sia la stessa cosa che costruire la memoria dell’anima) e dalla pratica della scrittura, dall’accademia platonica in poi. Sia l’antropologia sociale sia la filosofia hanno mostrato molto bene come le modalità comunicative, per esempio la scrittura letterata o, addirittura, le varie forme segniche di scrittura, determinino vere e proprie forme di pensiero: è bene sapere che esse sono e restano congiunturali (congiunture talmente grandi da assurgere a epoche), anche se è impossibile cercare di sottrarvisi, se non con gesti che, alla fine, diventano specchi narcisistici dell’autoreferenzialità filosofica e non conducono ad alcun sapere filosofico intorno al mondo. Tuttavia la filosofia deve sempre vigilare su se stessa e aver chiaro quale sia la sua forma discorsiva possibile, o quale fosse eventualmente possibile inventare, mantenendo un effetto comunicativo coerente rispetto ad altre forme discorsive più forti e più efficaci socialmente. Per esempio, la scrittura filosofica di Nietzsche opera la trasfigurazione del sapere scientifico di cui si serve, sì da mutarne l’effetto di verità rispetto a quello sociale prodotto dalle teorie scientifiche nelle forme enunciative loro proprie. In questa prospettiva, guardando le cose attraverso una grande lente di ingrandimento, pare ovvio che non si possano mettere sul medesimo piano i commenti dei maestri medioevali, le forme sociali delle accademie che crescono fuori dal circuito scolastico come nuove istituzioni filosofiche, il discorso metodico che guarda in direzione della scienza moderna, il discorso di natura teatrale dei salotti illuministi e la forma della teoreticità come riconoscimento della verità filosofica propria delle Università tedesche, unita al concetto fondamentale della libertà filosofica. Su tutti questi temi si è costruito quello che poi fu riconosciuto come il modello weberiano di Università. Noi sappiamo che queste cose sono al tramonto, poiché la parola formazione, centrale nella riforma di Humboldt dell’Università tedesca, oggi non ha più niente a che vedere con la creazione spirituale, ma indica piuttosto abilità pratiche e tecniche spendibili nello scambio mercantile del lavoro. Naturalmente questa è una forma di vita a brevissimo circuito. Come si diceva, essa può produrre domande di senso ulteriore che, tuttavia, più che aurore filosofiche, sarei disposto a considerare come malesseri sociali, tendenziali anomie quali, in forme molto differenti, si trovano in qualsiasi forma sociale. Un altro problema importante dell’oggi è rappresentato dalla relazione tra la filosofia e le nuove tecnologie informatiche. Alcuni decenni or sono la sperimentazione elettronica toccò alla musica: non fu affatto una catastrofe, per cui è necessario affrontare con serenità il problema, moderna declinazione del tema classico del rapporto tra il mezzo di comunicazione e il senso del messaggio filosofico. Non posso riassumere in questa sede la riflessione che ho sviluppato altrove su questo problema. Ne richiamerò soltanto alcuni punti, nei quali l’ipertesto è considerato come la realizzazione dello scacco che il pensiero metafisico dà di se stesso. La filosofia nell’ipertesto – si dice – è la realizzazione tecnologica alla portata di un fare diffuso della teoria intorno alla indecidibilità del senso rispetto allo scorrere indefinito della scrittura. Il tempo dei processi di testualizzazione, privo di sequenze organizzate, senza scultura, quindi in una combinazione di occasionali presenti; la mancanza di margini, decisa nel laboratorio del senso pieno e circoscritto; il gioco inincentrabile delle tracce che vi si intersecano; la pluralità indeterminata degli scriventi; l’appuntamento casuale dei reciprochi interventi rispetto alla figura autodeterminata e identitaria dell’autore; tutto questo, e le altre occasioni che vi si connettono, distruggono, nella pratica della comunicazione, la sequenza metafisica del testo chiuso, del suo significato dicibile nella forma di un’idea, o di un ordine di idee, dello scrittore come signore della scrittura. Credo che queste considerazioni appartengano a un abile montaggio filosofico, finalizzato a mostrare l’esistenza di una pratica che finalmente realizza una teoria. Sappiamo che in politica questa relazione può rivelarsi disastrosa; nella filosofia è un caso da vedere con chiarezza. Abbiamo detto che l’ipertesto filosofico modifica le strutture essenziali proprie della figura comunicativa della filosofia; ciò non toglie però che non vi sia un’esperienza di pensiero. Tuttavia la situazione dell’ipertesto muta l’insieme delle condizioni della comunicazione filosofica tradizionale: il tempo di scrittura, la forma della relazione elaborativa, il rapporto autore - testo, la forma del riconoscimento, la cancellabilità, la durata, l’investimento emotivo, la dedizione, la conservazione, la relazione tra memoria e pensiero, la relazione con l’alterità, il lettore interiore del testo, la procrastinazione del messaggio, l’autolegittimazione a prendere la parola, l’apprendimento. Tutti questi elementi, che costituiscono il “campo trascendentale” del fare filosofico, sono soggetti a mutazione nella dimensione dell’ipertesto. Se all’esperienza possibile si davano queste nuove prospettive e, forse, il gusto di entrare nell’avventura, è più che sensato chiedersi quali finalità mi ponessi varando, con un ottimo gruppo di allievi e di collaboratori, la rivista filosofica “Oltrecorrente” in una forma del tutto tradizionale. Il nome designa un luogo e una tradizione della cultura italiana. Non è qui il caso di rievocare che cosa rappresentò “Corrente” nella vita dell’arte, della poesia e della filosofia alla fine degli anni Trenta. Vi collaborarono Montale, Quasimodo, Sereni, Banfi, Paci, Cantoni, Anceschi, Formaggio, Bonfanti, De Grada e i pittori Birolli, Cassinari, Morlotti, Migneco, Guttuso, Badodi e molti altri di non minore importanza. Non catalizzò un “movimento”, bensì individualità concordi su alcuni punti essenziali: la ricerca artistica e teorica va decondizionata da qualsiasi comando o potere estraneo ad essa. Essa è piuttosto una ricerca aperta, dove la libertà espressiva è l’elemento in cui si riconosce ognuno e in cui ognuno si distingue. Sono l’arte e il pensiero che danno una particolare consapevolezza dello stare al mondo e costituiscono un valore etico non nella loro esperienza - che ha il suo fine e il suo stile -, ma nel loro valore riflesso pubblicamente. Ho guardato a questa tradizione e ho pensato che ne condividevo le radici, ma che era ovviamente necessario andare oltre. Il lavoro filosofico, anche quando trova un orizzonte di verità, è sempre segnato dai significati che gli hanno consentito questa esperienza. Ora non farò la storia analitica della rivista, ma mi limiterò a esporne soltanto alcuni tratti essenziali. Quando nacque la rivista, giungeva l’ultima onda di un manierismo filosofico intorno al compimento della filosofia. Mi parve, al contrario, l’apertura di uno spazio filosofico, come di una pratica dell’intelligenza che non fosse né linguaggio poetizzante né mimesi scientifica. Si trattava di stabilire il luogo teorico di una specificità filosofica orfana, felice di ogni trasfigurazione metafisica, attenta al modo e alla possibilità di comunicazione di un lavoro filosofico compromesso totalmente con le reazioni della contingenza, tuttavia capace di distanziarsi dai modi in cui la contingenza trova abitualmente il suo reticolo semantico. Si trattava, se possibile, di trovare modalità di scrittura, invenzioni per trascrivere l’esperienza che consentissero forme di intelligibilità non riducibili ad altre figure di pensiero. Era, in ogni caso, una ricerca che avveniva entro la tradizione della filosofia e, per come era posto questo problema, il progetto della rivista si situava in quello che ho cercato di definire il campo trascendentale delle condizioni della filosofia come sapere scritto, testualizzazione che appartiene a una temporalità “testamentaria”. Del resto tutto questo è in continuità con la tradizione della filosofia nella quale io stesso avevo cominciato a riflettere con la convinzione che il pensiero, per sua natura, non avesse altre strade per configurare i propri problemi: il che significa avere un campo molto circoscritto (e molto condiviso) di possibilità. Solo all’interno di questo campo sarebbe stato possibile giocare la capacità di una variante di ricerca, così che il mezzo più ovvio era certamente quello della rivista filosofica. Si svolse quindi una inevitabile ricerca autoreferenziale, nella quale le maggiori esperienze della contemporaneità filosofica agirono come materiali di pensiero. La rivista si pose il problema di esplorare da questa prospettiva le forme di sapere oggettivamente costituite, dal sapere del tempo al sapere dell’aisthesis. Fu un intreccio di collaborazioni e di impegni della redazione che segnarono il nostro cammino sino a condursi, in un appassionante dialogo redazionale, in una ripresa del discorso filosofico “in direzione del mondo”. Devo dire che al nostro lavoro collaborarono due sole dimensioni istituzionali: la generosità del sapere di chi accettò di portare nel nostro contesto il suo contributo, e l’insistenza e la tenacia dello scambio intellettuale tra i redattori di “Oltrecorrente”. La filosofia riprendeva, nelle nuove condizioni, il suo “lavoro del concetto”, il nostro destino occidentale, che si deve riconoscere proprio nel suo possibile senso contemporaneo, nell’indefinita apertura alle alterità del mondo contemporaneo: certi che non potremo mai “essere”, se non misurandoci con la complessità del mondo che oggi, in modo più o meno diretto, attraversa la nostra vita. Così “Oltrecorrente” si avventurerà in un mare aperto, sperando con lo studio, con la fatica dei suoi redattori e con la collaborazione preziosa dei suoi amici, di giungere, di volta in volta, a qualche approdo.
Fulvio Papi
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